Non vi racconterò i tempi, gli orari, i cronometri tra una contrazione e l'altra, i centimetri di dilatazione, quelli li trovate dove volete. Diciamo che il mio travaglio e parto sono stati abbastanza conformi alle statistiche per le primipare (alle statistiche non di quelle più confortanti, se vogliamo, ma nulla di fuori dalla norma né nel bene né nel male.)
Quello che voglio raccontarvi è quello che ho vissuto io personalmente.
Le prime contrazioni sono confondibilissime con un qualsiasi disturbo intestinale o con un inizio di mestruazione. Chissà perchè era da un mese che al primo dolorino pensavo che stesse iniziando il travaglio eppure quella notte non ho pensato subito che fosse arrivato il momento, o forse lo avevo pensato così tante volte che non mi colpiva più, o forse l'ho saputo fin dalla prima avvisaglia ma ero troppo stordita per emozionarmi, insomma, ho accolto le prime contrazioni come si rileva un raffreddore, con molta naturalezza e rassegnazione. Quando ho avvisato Ale che le fitte stavano diventando regolari e che nel giro di qualche ora avrei dovuto essere in ospedale e lui mi ha abbracciata dicendo “ma come farò? io piangerò tutto il tempo”, solo allora forse ho realizzato che quello era il gran giorno, ma non avevo tempo di emozionarmi, ero troppo stanca e concentrata.
Prima prova: accogliere il dolore come una benedizione
Si tratta, come sapete, di un dolore che arriva, cresce e svanisce, a un ritmo abbastanza sostenuto. Quando il male va via si sta benissimo, anche durante la “corsa in macchina a passo d'uomo”( alle 9 del mattino a Milano con la pioggia di ottobre) mi sono riaddormentata più volte. Ben presto però l'intensità ha cominciato ad aumentare e quando percepivo l'arrivo dell'ondata sentivo tutto il corpo contrarsi come quando ti accorgi che sta per caderti un enorme vaso di fiori in testa dal terzo piano o quando qualcuno sta per picchiarti e tu non puoi difenderti. Così facendo il male era ancora più forte, naturalmente. Allora mi sono tornate in mente le parole della mia amata ostetrica Anna: “come nel rapporto sessuale il piacere porta a lasciarsi andare e conduce all'orgasmo, così nel parto è il dolore ad essere guida e a spingerti ad abbandonare ogni resistenza e a lasciare andare.” E allora mi sono detta: questo dolore ha un senso, è l'utero che si dilata, se mi contraggo ci metterò di più a dilatarmi e tutto durerà ancora di più. Non mi resta che accogliere questo male, invece di stringere i denti e imprecare devo ringraziare il cielo e rilassarmi come se fosse una benedizione. Questa è la prima prova paradossale: accogliere il dolore come un dono, con gioia. Le pause tra una contrazione e l'altra erano dolci come gettarsi in un piumone caldo quando sei stanca morta e il ritmo regolare - il sapere che dopo il cavallone insopportabile sarebbe arrivata la pace - mi dava la forza per affrontare qualunque tortura, soprattutto perchè avevo ben chiaro che tutto aveva uno scopo preciso: aprire la via al mio bambino. Quel susseguirsi di onde, regolare e a modo suo rassicurante mi davano uno strano stordimento, tanto che credevo fosse passata un'oretta mentre invece ne erano passate quattro. Fino ad allora il tutto era umanamente sopportabile, soprattutto grazie ad Ale che mi ha massaggiato la schiena ad ogni singola contrazione. Sapere che c'era lì lui mi dava il coraggio di lasciarmi andare e senza di lui sarebbe stato molto più doloroso lungo e faticoso. Me ne sono accorta nettamente quei 5 minuti in cui Ale è andato a prendersi un caffè (in 12 ore si è allontanato da me solo due volte, alla fine vi giuro che lui era molto più provato di me!), io restavo con un'ostetrica, carina e gentile, però pur sempre una sconosciuta e con lei non emettevo un suono e continuavo a dire che non mi faceva poi tanto male, mi accorgevo che ero vigile, non puoi lasciarti andare andare in un ambiente sconosciuto, è innaturale. Davvero non mi faceva tanto male quando c'era lì lei, ma perchè tenevo tutto contratto e non si dilatava un tubo!
Seconda prova: superare i propri limiti
Però se devo essere onesta poi c'è stato un momentino brutto, non so quanto sia durato, ma le pause hanno cominciato ad essere meno nitide e a un certo punto mi è sembrato di essere sommersa da un'onda anomala che mi ha lasciato senza fiato per un tempo indescrivibile. So di aver detto “io non ce la faccio più, lasciamolo lì dentro, ci è stato 9 mesi perchè deve uscire oggi? lasciatemi una tregua, torno a casa, dormo un po' e poi ricomincio domani”. Veramente è un dolore che, proprio come il piacere troppo intenso, è capace di stordire. Ma se al principio è uno stordimento che quasi anestetizza come una botta in testa, poi diventa qualcosa che sopraffà, era troppo più forte di me, non ero più io a scegliere se e quanto lasciare andare, non mi conduceva più per mano, mi trascinava travolgendomi con violenza e anche se avessi voluto non avrei potuto resistere o contrarmi, anche perchè già mi sentivo senza più forze. Allora, mi sono ricordata quello che mi avevano detto mia mamma e mia nonna “quando ti sembra di non farcela proprio più, quello è il momento”. Bene, se è vero allora dovrebbe nascere immediatamente. Ma è incredibile l'essere umano, quando sembra di essere arrivati al limite della sopportazione, ti accorgi che puoi varcare il limite e andare oltre...
Terza prova: massimo sforzo e massimo abbandono
Fu allora che iniziai a sentire quel famoso bisogno di spingere, che all'inizio è come un vago desiderio di andare al gabinetto ma quando mi chiesero: “sei sicura che devi proprio spingere a tutti i costi?” mi accorsi che forse no, forse non me la sentivo di spingere perchè sentivo la testa di Jonas che premeva ma sentivo che non c'era ancora abbastanza spazio per farla uscire, e infatti l'ostetrica mi disse, dopo avermi visitata, di aspettare un po'. Pochi minuti dopo però non aspettai nessun parere perchè dovevo spingere e subito. Ormai ci siamo, mi dicevo. E invece no. E' vero che è un istinto impellente quello di spingere, ma non è che per questo tutto vada da sè. No, ci devi mettere tutte le tue forze. Quali forze? Io ero sicura di non averne più. Anche il bisogno di spingere arriva a ondate, ma a quel punto non si sente più tanto il male alla pancia da torciglioni, la spinta provoca un male meccanico, quello di un cranio che cerca di passare ( chi sta leggendo immaginando di dover vivere questo momento deve assolutamente ricordarsi che già da mesi tutti tessuti sono molto rilassati e dilatati, non cercate di immaginarvi di partorire così a freddo con la forma che avete adesso perchè potreste svenire dall'orrore. Respirate e ripetetevi “madre natura pensa a tutto”). Questa è la terza prova assurda del parto: dover spingere con tutte le proprie forse e al tempo stesso rilassare i muscoli e lasciare andare. Questa condizione paradossale si può verificare proprio e solo in virtù del fatto che il dolore ha talmente piegato la sua discepola che essa, se impiega davvero tutte le sue forze per spingere, non ne più ha per tenere contratti i muscoli della vagina (tuttavia non basta la natura, come mi ha insegnato la mia ostetrica Anna, se una non ha mai saputo che ci sono dei muscoli lì, e che essi si possono contrarre o rilassare, esercitando la propria volontà, è difficile che in quel momento sappia cosa deve rilassare). Mi veniva da urlare, ma l'ostetrica mi diceva “provi a non gridare, metta tutta l'energia nella spinta, come quando....come quando ...insomma come quando deve scaricare l'intestino”. In quel momento Ale (che mi era stato indispensabile durante le contrazioni ma durante la fase espulsiva non poteva fare altro che tenermi la mano e cercare di non gridare per come gliela stritolavo) si è illuminato. Finalmente capiva di cosa si stava parlando e poteva darmi consigli anche lui! Io chiedevo “con la prossima spinta potrebbe uscire, vero?” e l'ostetrica: “ beh, magari non proprio la prossima, ma se continui così sei sulla buona strada.” Apprezzavo la sua onestà, ma non le credevo, non potevo credere che quella prova si sarebbe protratta troppo a lungo perchè sentivo che non avrei avuto forza per più di un paio di spinte al massimo e ripetevo dentro di me: “cucciolo mio, dài che tra poco finisce tutto, tieni duro!” (vi posso dire comunque che aveva ragione l'ostetrica, non è proprio uscito in 5 spinte...)
Quarta prova: rinunciare a sé per l'altro
Credevo che il parto fosse una cosa abbastanza istintiva e invece no, per lo meno il primo parto non lo è. Non avrei mai potuto partorire da sola. Anche se poi quella che ha partorito sono stata io senza particolare interventi esterni, avevo bisogno non solo della presenza di persone amate, ma anche di consigli e incoraggiamenti. E' strano perchè hai l'istinto di spingere, ma poi farlo nel modo giusto non è così naturale. Anzi, è completamente contro natura! Io spingevo e sentivo che mi stavo spaccando. Quale follia può condurre un essere umano a mettere impegno e sforzo in un gesto che gli provoca dolore e fa sentire così in bilico tra la vita e la morte (perchè in quel momento lo senti che la vita è intrecciata alla morte, anche se le statistiche sulle morti da parto in Italia ti tranquillizzano). Sembrerà banale la risposta, da romanzo d'appendice o da opuscolo new-age... ma quella follia che ti fa superare tutti le prove iniziatiche paradossali e ti fa dire “va bene, sono disposta a spaccarmi in mille pezzi, non mi importa, mi importa solo che il mio cucciolo stia bene”, quella follia tradotta in italiano mi sa che si chiama amore.
Il senso
“Lavorerai la terra col sudore della tua fronte e Partorirai con dolore” se qualcuno ha pensato che queste fossero disgrazie (non parliamo di chi le considera maledizioni) o semplici punizioni, io penso che si sbagli e anche che non si goda molto la vita. Del sudore della fronte oggi non mi occuperò. Invece vorrei riflettere sul senso di queste prove da superare per diventare madri. Non ci ho mai ragionato a posteriori, quello che ho scritto fin qui è il resoconto di quello che ho vissuto e sentito al momento, adesso tenterò di tirare le fila in diretta e se avete qualcosa da aggiungere, rettificare o confutare ne sarò felice perchè siamo nel campo della speculazione e non più nel racconto di me. Come si traducono queste prove iniziatiche nella vita quotidiana di chiunque, ma di una madre in modo ancora più netto?
- Prima prova: accogliere il dolore come una benedizione
Più che altro accogliere Tutto come una benedizione, direi, compreso il dolore. Mi hanno chiesto come fai a essere così sicura che tutto abbia un senso, anche le cose più atroci e assurde? certo, io di cose veramente mostruose nella mia vita non ne ho ancora provate, con che diritto sentenzio sul senso del dolore? Nella mia visione se volete ingenua - dove tutto ha un suo senso- il fatto di aver vissuto fin qui una vita molto privilegiata forse mi è servito proprio per arrivare a dedurre questa teoria. Forse non sono in grado di sostenere razionalmente questa mia idea, ma so che metterla in pratica mi fa vivere con una leggerezza e una serenità che - chissà - forse mi aiuteranno ad affrontare anche dolori più grandi. So solo che se parto dal presupposto che tutto quello che arriva sia una benedizione passerò la vita beandomi delle meravigliose prove e doni ricevuti ogni momento.
- Seconda prova: superare i propri limiti
Non c'è tanto da parlarne, quando sei mamma i limiti li superi ogni giorno sopportando con naturalezza notti insonni e altre grandi e piccole tragedie
- Terza prova: massimo sforzo e massimo abbandono
Impegnarsi al massimo, con tutte le proprie forze per rendere più bella la propria vita, quella dei figli, delle persone amate, delle persone intorno cercando di allargare il più possibile il raggio, creando relazioni il più significative, pure e ricche possibili, ma al tempo stesso abbandonarsi, accettare di non essere onnipotenti, di non poter evitare completamente il dolore ai propri figli, di non poter cambiare gli altri perchè possano avere una vita migliore.
- Quarta prova: rinunciare a sé per l'altro
Questa è controversa, almeno dentro di me. Si dice “ama il prossimo tuo come te stesso” , non “più di te stesso”. E poi, grande insegnamento appreso da mia madre (non certo perchè lei l'abbia verbalizzato né messo in pratica - vedi il post intitolato “madre e pre-madre”): non bisogna eccedere nel dono di sé se poi si ha intenzione di mettere ogni dono sul conto del beneficiario. Ma con estrema consapevolezza di sé e moderazione a volte è necessario anche rinunciare a sé. O forse queste sono considerazioni da figlia di una femminista non riuscita. Forse invece a volte si può anche rinunciare a sé con leggerezza e naturalezza, come hanno fatto molte donne prima di noi senza rendersene conto e senza soffrirne o recriminare, come uno spontaneo e ingenuo esagerato gesto d'amore.
L'essenza del parto
Partorire è come fare l'amore al rovescio. Quando si fa l'amore, due corpi separati, guidati dal piacere, perdono la loro identità vivendo per un breve tempo l'estasi dell'unione oltre la carne. Quando si partorisce, invece, due corpi, che fino a quel momento hanno respirato e si sono nutriti insieme, si separano, guidati dal dolore insito in ogni separazione, e acquistano ciascuno una propria nuova identità. Ognuno dei due passaggi è strettamente connesso all'altro, non può iniziare una nuova vita se non dall'unione di un uomo e una donna, ne potremmo fare l'amore se non ci fossimo precedentemente separati nascendo e incarnandoci come uomini o donne sulla terra. Quello che hanno in comune questi due eventi è che, come tutte le cose meravigliose e sublimi, possono anche essere aberranti e disgustose a seconda dei contesti e che ciò che le rende sublimi – questa almeno è la generalizzazione a cui sono giunta- è la fiducia. Non si può spiegare, a chi non l'abbia provata, la differenza tra fare l'amore con una persona meravigliosa che ami e ti ricambia ma non sai per quanto l'idillio durerà e fare l'amore con la stessa persona ma sapendo che entrambi ci si impegnerà al massimo per costruire una vita insieme e coltivare la relazione nella famosa “buona o cattiva sorte” (non sto parlando solo del Matrimonio in senso stretto, naturalmente). Credo che la differenza la faccia la fiducia, solo se hai la certezza che non verrai ferito puoi abbandonarti completamente all'altro. Nel parto è la stessa cosa, puoi affidarti alla competenza dell'ospedale, all'esperienza delle ostetriche, ai ritrovati della medicina moderna, alle statistiche, a un buon rapporto col corpo e con il “lasciare andare”, ma se hai la Fiducia che quello che succederà sarà quello che deve succedere... solo allora ti puoi lasciare andare e puoi lasciare andare anche il tuo bambino per il mondo
In principio
Le prime contrazioni sono confondibilissime con un qualsiasi disturbo intestinale o con un inizio di mestruazione. Chissà perchè era da un mese che al primo dolorino pensavo che stesse iniziando il travaglio eppure quella notte non ho pensato subito che fosse arrivato il momento, o forse lo avevo pensato così tante volte che non mi colpiva più, o forse l'ho saputo fin dalla prima avvisaglia ma ero troppo stordita per emozionarmi, insomma, ho accolto le prime contrazioni come si rileva un raffreddore, con molta naturalezza e rassegnazione. Quando ho avvisato Ale che le fitte stavano diventando regolari e che nel giro di qualche ora avrei dovuto essere in ospedale e lui mi ha abbracciata dicendo “ma come farò? io piangerò tutto il tempo”, solo allora forse ho realizzato che quello era il gran giorno, ma non avevo tempo di emozionarmi, ero troppo stanca e concentrata.
Prima prova: accogliere il dolore come una benedizione
Si tratta, come sapete, di un dolore che arriva, cresce e svanisce, a un ritmo abbastanza sostenuto. Quando il male va via si sta benissimo, anche durante la “corsa in macchina a passo d'uomo”( alle 9 del mattino a Milano con la pioggia di ottobre) mi sono riaddormentata più volte. Ben presto però l'intensità ha cominciato ad aumentare e quando percepivo l'arrivo dell'ondata sentivo tutto il corpo contrarsi come quando ti accorgi che sta per caderti un enorme vaso di fiori in testa dal terzo piano o quando qualcuno sta per picchiarti e tu non puoi difenderti. Così facendo il male era ancora più forte, naturalmente. Allora mi sono tornate in mente le parole della mia amata ostetrica Anna: “come nel rapporto sessuale il piacere porta a lasciarsi andare e conduce all'orgasmo, così nel parto è il dolore ad essere guida e a spingerti ad abbandonare ogni resistenza e a lasciare andare.” E allora mi sono detta: questo dolore ha un senso, è l'utero che si dilata, se mi contraggo ci metterò di più a dilatarmi e tutto durerà ancora di più. Non mi resta che accogliere questo male, invece di stringere i denti e imprecare devo ringraziare il cielo e rilassarmi come se fosse una benedizione. Questa è la prima prova paradossale: accogliere il dolore come un dono, con gioia. Le pause tra una contrazione e l'altra erano dolci come gettarsi in un piumone caldo quando sei stanca morta e il ritmo regolare - il sapere che dopo il cavallone insopportabile sarebbe arrivata la pace - mi dava la forza per affrontare qualunque tortura, soprattutto perchè avevo ben chiaro che tutto aveva uno scopo preciso: aprire la via al mio bambino. Quel susseguirsi di onde, regolare e a modo suo rassicurante mi davano uno strano stordimento, tanto che credevo fosse passata un'oretta mentre invece ne erano passate quattro. Fino ad allora il tutto era umanamente sopportabile, soprattutto grazie ad Ale che mi ha massaggiato la schiena ad ogni singola contrazione. Sapere che c'era lì lui mi dava il coraggio di lasciarmi andare e senza di lui sarebbe stato molto più doloroso lungo e faticoso. Me ne sono accorta nettamente quei 5 minuti in cui Ale è andato a prendersi un caffè (in 12 ore si è allontanato da me solo due volte, alla fine vi giuro che lui era molto più provato di me!), io restavo con un'ostetrica, carina e gentile, però pur sempre una sconosciuta e con lei non emettevo un suono e continuavo a dire che non mi faceva poi tanto male, mi accorgevo che ero vigile, non puoi lasciarti andare andare in un ambiente sconosciuto, è innaturale. Davvero non mi faceva tanto male quando c'era lì lei, ma perchè tenevo tutto contratto e non si dilatava un tubo!
Seconda prova: superare i propri limiti
Però se devo essere onesta poi c'è stato un momentino brutto, non so quanto sia durato, ma le pause hanno cominciato ad essere meno nitide e a un certo punto mi è sembrato di essere sommersa da un'onda anomala che mi ha lasciato senza fiato per un tempo indescrivibile. So di aver detto “io non ce la faccio più, lasciamolo lì dentro, ci è stato 9 mesi perchè deve uscire oggi? lasciatemi una tregua, torno a casa, dormo un po' e poi ricomincio domani”. Veramente è un dolore che, proprio come il piacere troppo intenso, è capace di stordire. Ma se al principio è uno stordimento che quasi anestetizza come una botta in testa, poi diventa qualcosa che sopraffà, era troppo più forte di me, non ero più io a scegliere se e quanto lasciare andare, non mi conduceva più per mano, mi trascinava travolgendomi con violenza e anche se avessi voluto non avrei potuto resistere o contrarmi, anche perchè già mi sentivo senza più forze. Allora, mi sono ricordata quello che mi avevano detto mia mamma e mia nonna “quando ti sembra di non farcela proprio più, quello è il momento”. Bene, se è vero allora dovrebbe nascere immediatamente. Ma è incredibile l'essere umano, quando sembra di essere arrivati al limite della sopportazione, ti accorgi che puoi varcare il limite e andare oltre...
Terza prova: massimo sforzo e massimo abbandono
Fu allora che iniziai a sentire quel famoso bisogno di spingere, che all'inizio è come un vago desiderio di andare al gabinetto ma quando mi chiesero: “sei sicura che devi proprio spingere a tutti i costi?” mi accorsi che forse no, forse non me la sentivo di spingere perchè sentivo la testa di Jonas che premeva ma sentivo che non c'era ancora abbastanza spazio per farla uscire, e infatti l'ostetrica mi disse, dopo avermi visitata, di aspettare un po'. Pochi minuti dopo però non aspettai nessun parere perchè dovevo spingere e subito. Ormai ci siamo, mi dicevo. E invece no. E' vero che è un istinto impellente quello di spingere, ma non è che per questo tutto vada da sè. No, ci devi mettere tutte le tue forze. Quali forze? Io ero sicura di non averne più. Anche il bisogno di spingere arriva a ondate, ma a quel punto non si sente più tanto il male alla pancia da torciglioni, la spinta provoca un male meccanico, quello di un cranio che cerca di passare ( chi sta leggendo immaginando di dover vivere questo momento deve assolutamente ricordarsi che già da mesi tutti tessuti sono molto rilassati e dilatati, non cercate di immaginarvi di partorire così a freddo con la forma che avete adesso perchè potreste svenire dall'orrore. Respirate e ripetetevi “madre natura pensa a tutto”). Questa è la terza prova assurda del parto: dover spingere con tutte le proprie forse e al tempo stesso rilassare i muscoli e lasciare andare. Questa condizione paradossale si può verificare proprio e solo in virtù del fatto che il dolore ha talmente piegato la sua discepola che essa, se impiega davvero tutte le sue forze per spingere, non ne più ha per tenere contratti i muscoli della vagina (tuttavia non basta la natura, come mi ha insegnato la mia ostetrica Anna, se una non ha mai saputo che ci sono dei muscoli lì, e che essi si possono contrarre o rilassare, esercitando la propria volontà, è difficile che in quel momento sappia cosa deve rilassare). Mi veniva da urlare, ma l'ostetrica mi diceva “provi a non gridare, metta tutta l'energia nella spinta, come quando....come quando ...insomma come quando deve scaricare l'intestino”. In quel momento Ale (che mi era stato indispensabile durante le contrazioni ma durante la fase espulsiva non poteva fare altro che tenermi la mano e cercare di non gridare per come gliela stritolavo) si è illuminato. Finalmente capiva di cosa si stava parlando e poteva darmi consigli anche lui! Io chiedevo “con la prossima spinta potrebbe uscire, vero?” e l'ostetrica: “ beh, magari non proprio la prossima, ma se continui così sei sulla buona strada.” Apprezzavo la sua onestà, ma non le credevo, non potevo credere che quella prova si sarebbe protratta troppo a lungo perchè sentivo che non avrei avuto forza per più di un paio di spinte al massimo e ripetevo dentro di me: “cucciolo mio, dài che tra poco finisce tutto, tieni duro!” (vi posso dire comunque che aveva ragione l'ostetrica, non è proprio uscito in 5 spinte...)
Quarta prova: rinunciare a sé per l'altro
Credevo che il parto fosse una cosa abbastanza istintiva e invece no, per lo meno il primo parto non lo è. Non avrei mai potuto partorire da sola. Anche se poi quella che ha partorito sono stata io senza particolare interventi esterni, avevo bisogno non solo della presenza di persone amate, ma anche di consigli e incoraggiamenti. E' strano perchè hai l'istinto di spingere, ma poi farlo nel modo giusto non è così naturale. Anzi, è completamente contro natura! Io spingevo e sentivo che mi stavo spaccando. Quale follia può condurre un essere umano a mettere impegno e sforzo in un gesto che gli provoca dolore e fa sentire così in bilico tra la vita e la morte (perchè in quel momento lo senti che la vita è intrecciata alla morte, anche se le statistiche sulle morti da parto in Italia ti tranquillizzano). Sembrerà banale la risposta, da romanzo d'appendice o da opuscolo new-age... ma quella follia che ti fa superare tutti le prove iniziatiche paradossali e ti fa dire “va bene, sono disposta a spaccarmi in mille pezzi, non mi importa, mi importa solo che il mio cucciolo stia bene”, quella follia tradotta in italiano mi sa che si chiama amore.
Il senso
“Lavorerai la terra col sudore della tua fronte e Partorirai con dolore” se qualcuno ha pensato che queste fossero disgrazie (non parliamo di chi le considera maledizioni) o semplici punizioni, io penso che si sbagli e anche che non si goda molto la vita. Del sudore della fronte oggi non mi occuperò. Invece vorrei riflettere sul senso di queste prove da superare per diventare madri. Non ci ho mai ragionato a posteriori, quello che ho scritto fin qui è il resoconto di quello che ho vissuto e sentito al momento, adesso tenterò di tirare le fila in diretta e se avete qualcosa da aggiungere, rettificare o confutare ne sarò felice perchè siamo nel campo della speculazione e non più nel racconto di me. Come si traducono queste prove iniziatiche nella vita quotidiana di chiunque, ma di una madre in modo ancora più netto?
- Prima prova: accogliere il dolore come una benedizione
Più che altro accogliere Tutto come una benedizione, direi, compreso il dolore. Mi hanno chiesto come fai a essere così sicura che tutto abbia un senso, anche le cose più atroci e assurde? certo, io di cose veramente mostruose nella mia vita non ne ho ancora provate, con che diritto sentenzio sul senso del dolore? Nella mia visione se volete ingenua - dove tutto ha un suo senso- il fatto di aver vissuto fin qui una vita molto privilegiata forse mi è servito proprio per arrivare a dedurre questa teoria. Forse non sono in grado di sostenere razionalmente questa mia idea, ma so che metterla in pratica mi fa vivere con una leggerezza e una serenità che - chissà - forse mi aiuteranno ad affrontare anche dolori più grandi. So solo che se parto dal presupposto che tutto quello che arriva sia una benedizione passerò la vita beandomi delle meravigliose prove e doni ricevuti ogni momento.
- Seconda prova: superare i propri limiti
Non c'è tanto da parlarne, quando sei mamma i limiti li superi ogni giorno sopportando con naturalezza notti insonni e altre grandi e piccole tragedie
- Terza prova: massimo sforzo e massimo abbandono
Impegnarsi al massimo, con tutte le proprie forze per rendere più bella la propria vita, quella dei figli, delle persone amate, delle persone intorno cercando di allargare il più possibile il raggio, creando relazioni il più significative, pure e ricche possibili, ma al tempo stesso abbandonarsi, accettare di non essere onnipotenti, di non poter evitare completamente il dolore ai propri figli, di non poter cambiare gli altri perchè possano avere una vita migliore.
- Quarta prova: rinunciare a sé per l'altro
Questa è controversa, almeno dentro di me. Si dice “ama il prossimo tuo come te stesso” , non “più di te stesso”. E poi, grande insegnamento appreso da mia madre (non certo perchè lei l'abbia verbalizzato né messo in pratica - vedi il post intitolato “madre e pre-madre”): non bisogna eccedere nel dono di sé se poi si ha intenzione di mettere ogni dono sul conto del beneficiario. Ma con estrema consapevolezza di sé e moderazione a volte è necessario anche rinunciare a sé. O forse queste sono considerazioni da figlia di una femminista non riuscita. Forse invece a volte si può anche rinunciare a sé con leggerezza e naturalezza, come hanno fatto molte donne prima di noi senza rendersene conto e senza soffrirne o recriminare, come uno spontaneo e ingenuo esagerato gesto d'amore.
L'essenza del parto
Partorire è come fare l'amore al rovescio. Quando si fa l'amore, due corpi separati, guidati dal piacere, perdono la loro identità vivendo per un breve tempo l'estasi dell'unione oltre la carne. Quando si partorisce, invece, due corpi, che fino a quel momento hanno respirato e si sono nutriti insieme, si separano, guidati dal dolore insito in ogni separazione, e acquistano ciascuno una propria nuova identità. Ognuno dei due passaggi è strettamente connesso all'altro, non può iniziare una nuova vita se non dall'unione di un uomo e una donna, ne potremmo fare l'amore se non ci fossimo precedentemente separati nascendo e incarnandoci come uomini o donne sulla terra. Quello che hanno in comune questi due eventi è che, come tutte le cose meravigliose e sublimi, possono anche essere aberranti e disgustose a seconda dei contesti e che ciò che le rende sublimi – questa almeno è la generalizzazione a cui sono giunta- è la fiducia. Non si può spiegare, a chi non l'abbia provata, la differenza tra fare l'amore con una persona meravigliosa che ami e ti ricambia ma non sai per quanto l'idillio durerà e fare l'amore con la stessa persona ma sapendo che entrambi ci si impegnerà al massimo per costruire una vita insieme e coltivare la relazione nella famosa “buona o cattiva sorte” (non sto parlando solo del Matrimonio in senso stretto, naturalmente). Credo che la differenza la faccia la fiducia, solo se hai la certezza che non verrai ferito puoi abbandonarti completamente all'altro. Nel parto è la stessa cosa, puoi affidarti alla competenza dell'ospedale, all'esperienza delle ostetriche, ai ritrovati della medicina moderna, alle statistiche, a un buon rapporto col corpo e con il “lasciare andare”, ma se hai la Fiducia che quello che succederà sarà quello che deve succedere... solo allora ti puoi lasciare andare e puoi lasciare andare anche il tuo bambino per il mondo
1 commento:
Ho letto tutto d'un fiato e posso tranquillamente dire che la penso come te sullo stretto incrocio tra Amore, Dolore, Vita, Morte..
Ciao
Serena
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