Quando ero in Guatemala, dopo giugno luglio agosto settembre e ottobre, la stagione delle piogge doveva iniziare a finire.
Mi ero abituata alla beneducazione di quel clima: verso le tre del pomeriggio, il caldo afoso del giorno in pochi minuti cessava, il cielo perfettamente azzurro si incupiva e un gradevole venticello asciugava il sudore giù per la schiena. Nel giro di un quarto d'ora cominciava a piovere a secchiate con tanto di fulmini e tuoni, roba da restarci secchi - negli ultimi anni un po' di gente e di mucche erano stati fulminati proprio nei campi lì intorno. Una volta che eravamo senza acqua in casa ne ho approfittato per farmi uno shampoo e andare a farmelo sciacquare dal cielo sull'uscio di casa.
Poi verso le sette di sera la tempesta se ne andava, lasciando la terra sazia e morbida, le piante soddisfatte, le stelle si mostravano lucide a migliaia, da lontano si poteva vedere il Volcàn de Fuego sulla cui cima sgorga a balzi perenne il fiore rosso incandescente nella notte.
E quello per loro è l'inverno, anche se essendo nell'emisfero boreale dovrebbe essere estate, ma siccome quando poi piove meno (da dicembre a maggio) fa più caldo, hanno stabilito che quella è l'estate. (La verità e' che loro non hanno la più pallida idea di che cosa siano le stagioni. Quando raccontavo che d'inverno fa cosi' freddo che non cresce niente e che a volte d'estate il caldo è tale che tutto si secca, mi guardavano sconvolti. L'Italia deve essere un paese terribile, mi compativano perché avevo detto loro che i miei genitori non possedevano terra e del resto si vedeva che ero povera dal momento che non avevo nemmeno un dente d'oro... Come gliela spieghi l'emozione della primavera dopo l'inverno, la quiete fresca dell'autunno dopo l'estate?)
Vedendo questo video girato in Israele ho rivissuto qualche scena del mio ultimo mese in Guatemala, quando l'uragano Katrina ha dato il suo colpo di coda e le piogge, invece di cessare, hanno smesso di smettere del tutto. Pioveva giorno e notte, ininterrottamente, sempre a secchiate, il terzo giorno mi sono svegliata con la netta sensazione di essere in mezzo a un fiume in piena, il rivoletto di acqua di scolo, che normalmente scorreva lieto accanto alla strada principale della comunità maya dove abitavo, aveva scavato un fosso profondo 3 metri, per uscire dalle case si camminava in bilico su assi di legno traballanti per superare l'abisso dagli argini molli. Dalla terra, in mezzo ai cortili l'acqua sgorgava spontaneamente, l'intera collina, incapace di contenere tanta acqua, sembrava sul punto di esplodere. Tutte le radio della comunità erano accese e non facevano che informare sui villaggi travolti dal fango, i morti, le persone isolate dall'alluvione. I telefoni erano rari (lì ce ne era uno solo per tutte le 100 famiglie, per strada a Guatemala City c'era gente che affittava il cellulare per i minuti necessari a fare una chiamata), così la gente usava la radio per chiedere e offrire aiuto. Sul lago Atitlàn che distava un'oretta e dove ero stata poche settimane prima, interi paesi erano stati spazzati via. La gente mi diceva E adesso cosa fai? Torni in Italia? Sulle strade non si può andare, come fai? Resto qui con voi. E se muori e non torni più? Mi chiedevano i bambini.
Forse saremmo morti tutti, sì, ma avevo deciso di vivere con loro per quei mesi, e vivere con loro era anche questo. Loro mica potevano andarsene in Italia se le cose si mettevano male.
Poi le strade sono migliorate un po', mi hanno detto che gli autobus avevano ripreso a funzionare, allora sono andata fino al paesino di Santa Maria de Cotzumalguapa, dove c'era l'internet point per scrivere alla famiglia che pioveva un po' ma stavamo tutti bene. Lì c'era anche la fermata dell'autobus per andare a Guatemala City, dove sarei stata più al sicuro e da dove avrei potuto prendere un aereo per tornare a casa. In verità non l'ho preso in considerazione nemmeno un momento, ero solo preoccupata che se fossi tornata alla capitale, dove avrei potuto farmi un bagno caldo e rilassarmi un paio di giorni in casa di amici, poi magari le piogge mi avrebbero impedito di tornare alla comunità e se fosse successo qualcosa mentre me ne stavo al riparo mi sarei sentita davvero male.
Ma quello che volevo raccontare era un episodio specifico e illuminante: mentre tornavo dal mio internet point, e pochi kilometri a piedi mi separavano dalla comunità, mi sono imbattuta nel torrentello che attraversava la strada, dove col sole le farfalle venivano a bere. Normalmente lo superavo con un passo un po' più lungo, ma quel giorno era un po' diverso. Era largo 6 metri ed era marrone. Dall'altra parte c'era il Signor Hernandez, uno dei nonnetti della comunità, immobile sotto la pioggia scrosciante. Senza pensarci su mi tolgo i sandali e muovo un passo dentro l'acqua, bagnata per bagnata, almeno me ne torno a casa. La gamba sprofonda fino alla coscia e la corrente quasi mi trascina via. Hernandez mi fa dei cenni e grida qualcosa, ma anche se siamo a pochi metri di distanza non sento perché il frastuono dell'acqua che scende dal cielo unito a quella che scorre e' assordante.
Esco e lo guardo. Espere! mi grida. Mi sta dicendo di aspettare? O forse di sperare? Per loro non c'è differenza tra questi due verbi. Dovrei quindi sperare che il fiume smetta di essere un fiume? Va bene la fiducia nell'universo, ma al fatalismo c'e' un limite!
Provo di nuovo l'impresa, ma mi rendo conto che sto rischiando la vita in modo sciocco, così non posso fare altro che ascoltare il consiglio del nonno.
Effettivamente dopo dieci minuti a la pioggia inizia a diminuire e il fiume nel giro di mezz'ora riprende l'aspetto di un torrente, giusto un po' più torbidino del solito.
Cosi' è. A volte davvero è solo questione di aspettare.
Un'altra storia sull'aspettare: Viaggio Sopra, Sotto e nel mezzo
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