domenica 1 maggio 2016

Sant'Alberto di Butrio e gli affreschi col drago


Se dalla chiesa di Sagliano vi incamminate verso Sant’Alberto, incontrerete, ormai divorate dal bosco, le rovine del castello che proprio in quell’occasione si spaccò. E’ abbastanza pericoloso avventurarvisi oggi perché per raggiungerlo bisogna costeggiare un vertiginoso abisso, ma se lo fate potrete anche verificare che c’è proprio un enorme masso di rocce che è stato staccato dalla parete ed è stato posto con cura all’ingresso della gola. Operazione che avrebbe potuto compiere solo qualche creatura di forza soprannaturale. 
Se si guarda in su da Sagliano, i resti del castello sono facilmente confondibili con le formazioni rocciose della zona, tuttavia se siete scettici mettetevi in marcia e arrivate fino all’Eremo di Sant’Alberto. Lì troverete un affresco che raffigura il Castello di Oramala e quello di Sagliano. Ma non solo: sulla parete accanto, un po’ scrostato ma molto ben visibile, vedrete anche la descrizione di ciò che avvenne nella gola del Crenna, ossia la lotta di San Giorgio contro il Drago!



Ora vi spiegherò come mai qui è custodito di questo racconto.
Se ci si affaccia dalla strada che conduce dall’Eremo a Sagliano, è ben visibile, tra due montagne boscose, la collina di San Fermo con la piccola chiesetta. Ma questo paesaggio non è sempre stato così. Lo spazio tra i due versanti infatti altro non è che la gola del torrente Crenna, ossia la spaccatura che si creò con il terremoto provocato dal drago. Dopo quella terribile notte, Alberto uscì dalla sua grotta alle prime luci dell’alba per vedere che cosa fosse successo e vide l’orribile crepa che mostrava, come tra due sipari teatrali, la collina illuminata dal sole. Quel giorno il santo si mise in cammino per andare a trovare chi abitava la piccola casetta ai piedi della collina, senza sapere che si trattava di Fermo.
A quei tempi Alberto, che era molto più vecchio di Fermo, era già considerato santo e il marchese Malaspina di Casasco gli aveva già fatto costruire la Chiesa intorno a cui venne poi edificato il monastero di Sant’Alberto di Butrio che conserva gli affreschi di cui vi parlavo. Dovete sapere, infatti, che il figlio del marchese era un bambino particolare, passava le sue giornate in disparte, silenzioso, non si smuoveva se lo si chiamava e nemmeno se gli si urlava nelle orecchie, e non rispondeva mai alle domande.
Anzi non parlava proprio, non aveva mai parlato. Il marchese andava su tutte le furie, pensava che suo figlio fosse un maleducato, un buonannulla e accusava di questo la moglie, la balia e tutte le donne che si erano occupate del bambino nei suoi primi anni di vita - a quei tempi i padri non si occupavano dei figli prima dei sette anni, età in cui l’educazione dei maschi passava nelle mani del padre che iniziava a portarli con sè al lavoro o, se era un nobile, a istruirli nell’arte della caccia e della guerra. Il figlio del marchese non capiva quando gli davano istruzioni e anche quando lo sgridavano guardava da un’altra parte come se non stessero parlando con lui. In realtà il bambino non era nè stupido nè svogliato: era nato sordo e non avendo mai ascoltato parola umana non aveva mai imparato a parlare, era muto.
Il marchese all’inizio si arrabbiava, poi iniziò a disperarsi chiedendosi perché Dio l’avesse punito con un figlio così inutile. Per non pensare a suoi problemi passava le giornate cacciando, che era il passatempo dei nobili di allora. Un giorno il suo cane da caccia prediletto si mise sulle tracce di una splendida lepre bianca e condusse così il suo padrone fino al greto del torrente Butrio - che la gente allora chiamava buriòn forse perché era simile a un burrone - dove si fermò immobile con il naso in alto puntando qualcosa. Il marchese capì subito, dalla postura del suo cane, che non si trattava della lepre. Si inerpicò su per i sassi umidi del torrente e giunse alla grotta dove trovò Alberto sprofondato nella preghiera. 
La bolla di quiete che regnava intorno al sant’uomo era così intensa e piacevole che veniva voglia di accoccolarvisi dentro. Il nobile rimase a rispettosa distanza e quando Alberto finalmente si voltò verso di lui e lo guardo con i suoi occhi profondi e saggi, si inginocchiò e gli disse: “Tu che sei un uomo santo e sai parlare con Dio, prega per me e per i miei peccati, ché per punizione mio figlio non parla e non ascolta. Chiedi a Dio la grazia perché mio figlio possa diventare un buon marchese, migliore di suo padre.”.
Il marchese non si era mai occupato molto di Dio, ma quell’incontro gli toccò l’anima e se ne tornò a casa rasserenato, chiedendosi se fosse stato forse troppo duro con suo figlio e ripromettendosi di essere più paziente.
Giunto a casa vide il bambino che giocava seduto nel prato come di consueto, ma questa volta, al suono degli zoccoli del cavallo, il bimbo alzò la testa e si girò meravigliato. Quando vide il padre sorrise e disse “Buongiorno padre!”. Il marchese, piangendo di gioia, lo strinse al cuore e lo riempì di baci, senza preoccuparsi del fatto che questo non fosse considerato un comportamento virile.

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